Ex Machina - Recensione


In un futuro prossimo, Caleb (Domhnall Gleeson) giovane programmatore informatico, vince la possibilità di passare una settimana a casa di Nathan (Oscar Isaac), ambiguo fondatore della multinazionale informatica per cui lavora. In realtà, quella che è stata venduta come una vacanza, nasconde un delicato incarico. Caleb dovrà testare e valutare l’intelligenza artificiale di Ava (ma si pronuncia Eva…), per capire se è abbastanza umana o se è necessario sostituirla con un upgrade. Alex Garland, noto sceneggiatore di opere interessanti e mai banali (28 giorni dopo, Sunshine, Non lasciarmi) in cui la tematica di un futuro incerto è dominante, debutta alla regia con quest’opera, suddivisa in 7 capitoli, corrispondenti alle sessioni di Caleb con Ava. La domanda non è però SOLO e sempre la stessa: quanto di umano c’è in un robot? L’originalità di Ex Machina sta proprio nella ricerca della prospettiva, lo sguardo non è più solo quello del creatore o della creatura, ma vi è un terzo punto di vista, che rappresenta non solo lo spettatore del film, ma tutta la generazione figlia della cultura da motore di ricerca. Il centro di proiezione, non rimane fisso, ma si dirama all'infinito, come avviene per ogni dato messo online. L’oggetto d’analisi, non è quindi la quantità, ma la qualità: quando un robot si può definire umano? L’abilità di Garland sta sicuramente nello sfruttare appieno le suggestioni della macchina cinema.

Location a contrasto, con la casa trionfo di design hi-tech e freddezza contrapposta alla natura primordiale ma rigogliosa, un sonoro vibrante e minaccioso, e una fotografia che alterna sapientemente colori caldi e freddi. Tutto contribuisce a creare un’atmosfera di tangibile tensione fisica ed etica, e alcune pennellate d’autore, soprattutto nella parte centrale, ricordano film di qualità, e capisaldi del genere: penso a Blade Runner, ma soprattutto a Tarkovskij. Un microcosmo claustrofobico che diventa esistenziale, in cui lasciar implodere una suspense emotiva, che scorre tra sinapsi umane e sintetiche, in grado di replicare emozioni e sapere, ma non la coscienza. Manca però il coraggio di osare in cabina di regia, e certe scelte raffinate non sono adeguatamente supportate da una sufficiente padronanza del quadro. Certo è un’opera prima, ma la fantascienza umanista ha bisogno di maggior polso e consapevolezza. Garland, forse mette le mani avanti, con la metafora sul lavoro di Pollock (per liberare il braccio, è necessario svuotare la mente), rimangono comunque alcuni passaggi deboli (il furto della key card) o irrisolti (nel finale). Senza la divinità, presente nella frase latina da cui trae origine il titolo, la tragedia non si sblocca, e rimane sospesa in un limbo molto intimista, ma anche un po’ sommesso. VOTO 7 TRAILER

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