Vizio di forma - Recensione

1970. Gordita Beach, Los Angeles. Doc Sportello (Joaquin Phoenix) è un pigro detective privato, spesso fumato e strafatto, che su incarico della sua ex fiamma, Shasta Fay (Katherine Waterston), intraprende un viaggio (leggi trip…) alla ricerca di un magnate immobiliare sparito. Tra rehab per tossici, dentisti paranoici, tenenti allucinati, massaggiatrici dalla spiccata oralità e tanti altri personaggi dai nomi improbabili…Doc risolverà il caso. Progetto folle e anarchico: adattare un romanzo di Thomas Pynchon per il grande schermo. Il primo della Storia a lanciarsi in questa impresa titanica è il regista Paul Thomas Anderson, che dopo i provocatori e recenti “Il petroliere” e “The Master”, alza ancora l’asticella del suo stile eccessivo e ridondante, ma comunque sempre coraggioso. Eccellente la ricostruzione d’epoca, al servizio di una trama gialla, tortuosa e inspiegabile che, suggerisco, di mettere da parte per abbandonarsi al flusso “acido” d’immagini e situazioni, pena non godersi il film.
Cast ricco e superlativo: se il protagonista è già una nuova icona della Settima Arte, le performance di Josh Brolin e della Waterston, avrebbero strameritato una nomination all’Oscar. Anderson crea una dimensione filmica anticonformista, che diventa una malinconica e onirica fuga dalla realtà, tra sballi nell’assurdo ma anche tra le pieghe dolci e struggenti dei ricordi. Pagine di grande cinema, umorismo sboccato e momenti di stanca, sono gli ingredienti di un’opera corale, che con mezz’ora di meno avrebbe goduto della stessa popolarità de “Il grande Lebowski”. Sono convinto che più visioni contribuiranno a renderlo un cult assoluto. Un nostalgico omaggio al noir più classico, ma anche una commedia allucinogena e smodata, in balia delle onde anomale di un sogno psichedelico. Troppa carne al fuoco? No, caviale per cinefili. VOTO 7/8

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